top of page

Il diritto alla salute nella Costituzione e nella realtà

  • Immagine del redattore: Perugia per la Sanità Pubblica
    Perugia per la Sanità Pubblica
  • 6 mag
  • Tempo di lettura: 5 min

Aggiornamento: 6 giorni fa

Mauro Volpi


Il contesto che va tenuto presente è quello dello smantellamento a pezzi della Costituzione democratica e antifascista operata dall’attuale governo. A essere colpiti sono sia l’assetto equilibrato dei poteri sia la tutela dei diritti civili, politici e sociali. Tra questi ultimi occupa una posizione determinante il diritto alla salute, unico tra i diritti costituzionali a essere definito dall’art. 32 Cost. come “fondamentale”, nel presupposto che lo stato di benessere psico-fisico della persona rappresenta una precondizione per il pieno e effettivo esercizio di tutti gli altri diritti. Inoltre esso viene qualificato come “interesse della collettività” e deve essere garantito gratuitamente agli “indigenti”, e quindi a tutte le persone che non sono in grado di pagare per potersi curare. È evidente la volontà di dare assoluta centralità alla sanità pubblica.

L’attuazione dell’art. 32 è stata tardiva, così com’è avvenuto per altre parti della Costituzione ed è avvenuta nel corso del decennio che è stato il più proficuo per l’attuazione dei diritti sanciti nella Costituzione. La riforma sanitaria stabilita dalla legge 833/1978 ha istituito il Servizio Sanitario Nazionale fondato sui principi della universalità, consistente nella garanzia a tutti dell’assistenza sanitaria, della eguaglianza, quindi della parità di accesso senza discriminazioni ai servizi sanitari, e della solidarietà, che poneva il costo delle cure a carico di una fiscalità generale di tipo progressivo in base all’art. 53, c. 2, Cost. La riforma ha consentito alla sanità italiana di collocarsi ai vertici della classifica stabilita dall’OMS e a quella umbra di essere considerata fino a pochi anni fa tra i primi servizi sanitari regionali. Va ricordato che pochi mesi prima era stata approvata la riforma del sistema di cura del disagio mentale con la legge Basaglia 180/1978, alla cui attuazione è stato dato in Umbria un contributo qualitativo essenziale.

Da vari anni la sanità pubblica vive una situazione di crisi determinata dal progressivo allontanamento dal modello costituzionale, il quale è stato ridimensionato anche se ancora non completamente cancellato. Tra le cause fondamentali di questo regresso vi è la politica di riduzione delle risorse dello Stato sociale seguita negli ultimi decenni, che ha collocato il finanziamento della sanità vicino al 6% del Pil e quindi al di sotto della media della UE e in particolare dei più importanti Stati democratici, nei quali esso supera il 10% del Pil. Negli ultimi anni ha avuto un effetto pesantemente negativo la spesa militare e l’avrebbe a maggior ragione il progetto Re Arm, proposto dalla Commissione e approvato dal Parlamento europeo, che prevede lo stanziamento di 800 miliardi, compresi quelli destinati al Patto di coesione, posti al di fuori del patto di stabilità, cosa che non è consentita per le spese relative ai servizi sociali. Il definanziamento della sanità pubblica ha colpito il suo carattere universale, determinando il prodursi delle liste di attesa, che in Umbria hanno riguardato 78000 persone, e il gravissimo risultato della rinuncia alle cure, pari in Umbria al 9,2% degli utenti.

Altra ragione della crisi sta nella crescita della sanità privata a spese di quella pubblica, e quindi delle tasse pagate dai cittadini, grazie allo sviluppo di quella convenzionata e della concessione di sovvenzioni pubbliche a cliniche private, nonché nell’incentivazione della mutualità integrativa aziendale. La privatizzazione ha per lo più riguardato le cure più remunerative, mentre ha lasciato a carico della sanità pubblica quelle più costose e complesse. La concezione che è stata affermata in alcune Regioni, compresa l’Umbria nell’ultima consiliatura, è stata quella di una sanità fondata sulla competizione tra pubblico e privato e quindi dell’intervento privato non come supporto ma come sostitutivo di quello pubblico. Il ricorso al privato è stato incentivato dalla difficoltà di accesso e quindi dall’impossibilità di avere cure in tempi rapidi. Esso ha colpito il principio di eguaglianza in quanto l’accesso alle cure private ha determinato la discriminazione tra le fasce sociali più disagiate e quelle più abbienti.

Un ruolo non positivo è derivato dalla caratteristiche assunte dall’aziendalizzazione del servizio sanitario. Una cosa è l’esigenza di un’organizzazione e di una gestione che garantiscano l’efficienza, la qualità e il controllo; cosa ben diversa è una logica aziendalistica che concepisce la salute come una merce e la possibilità di servirsi del servizio sanitarioe in vista del conseguimento di profitti.

Infine non ha prodotto effetti positivi neppure la riforma del titolo quinto della parte seconda della Costituzione del 2001, che ha qualificato la “tutela della salute” come una competenza concorrente tra Stato e Regioni. Ciò ha determinato l’esistenza di ventuno servizi sanitari regionali che ha ridimensionato il ruolo del SSN e determinato una diseguaglianza crescente e insostenibile tra territori e persone, dovuta a un riparto delle risorse più favorevole alle Regioni più ricche e alla mancata attuazione delle previsioni dell’art. 119 Cost. sul fondo perequativo da garantire ai territori con minore capacità fiscale per abitanti e sulle risorse aggiuntive per le autonomie territoriali meno ricche. Allo Stato è rimasta la competenza esclusiva relativa alla “profilassi internazionale”, che gli ha consentito di svolgere un ruolo prevalente nella determinazione delle misure contro la pandemia, e alla “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantite su tutto il territorio nazionale”. Per la sanità ciò si è tradotto nella fissazione dei LEA, avvenuta soprattutto nel 2001 e aggiornata nel 2017, i quali tuttavia non hanno funzionato nella maggioranza delle Regioni a causa della mancata rimozione delle disparità esistenti. La diseguaglianza tra i servizi sanitari ha incentivato il fenomeno del turismo sanitario, che per l’Umbria negli ultimi anni si è trasformato da positivo in negativo con le netta prevalenza degli umbri che vanno a curarsi fuori regione rispetto ai non umbri che vengono nella regione.

Sulla diseguaglianza tra Regioni e persone avrebbe un effetto dirompente il progetto di autonomia differenziata sostenuto dalla maggioranza di centro-destra, che, trasferendo alle Regioni più ricche nuove funzioni in materia sanitaria, assesterebbe un colpo mortale al SSN e determinerebbe una sperequazione finanziaria a danno della maggioranza delle Regioni, compresa l’Umbria, che avendo un “residuo fiscale” positivo, non potrebbero giovarsi della compartecipazione al gettito dei tributi erariali pagati nel proprio territorio. È vero che il progetto è stato ridimensionato dalla sentenza 192/2024 della Corte costituzionale, la quale ha dichiarato l’illegittimità di varie disposizioni della legge Calderoli 86/2024 e dato una interpretazione conforme alla Costituzione di varie altre parti, ma non l’ha annullata nella sua interezza ed è stata seguita dalla sentenza 10/2025 che ha dichiarato inammissibile il referendum per l’abrogazione totale della legge. Occorre quindi prestare la massima vigilanza per evitare un nuovo rigurgito del progetto secessionista, che potrebbe riguardare anche la tutela della salute, e tra le iniziative da adottare dovrebbe essere presa in considerazione anche quella di una “riforma della riforma” del titolo quinto, da perseguire con legge costituzionale su iniziativa popolare ma anche di alcune Regioni (compresa l’Umbria). Questa dovrebbe ridisegnare il riparto delle competenze e nello specifico attribuire alla potestà legislativa esclusiva dello Stato la tutela della salute e il servizio sanitario nazionale, assegnando alla competenza concorrente Stato-Regioni la materia “assistenza e organizzazione sanitaria”.

In definitiva la situazione attuale di crisi richiede un ritorno alla Costituzione in direzione di un modello di rilancio della sanità pubblica, fondato sul rafforzamento del SSN, sul ricorso alla medicina territoriale, sulla valorizzazione del ruolo dei medici e di tutto il personale sanitario e sul ristabilimento della universalità e dell’eguaglianza delle cure prestate alle persone. Ciò è particolarmente urgente per l’Umbria, dove la Giunta uscente ha operato una gestione disastrosa della sanità, riducendo la tutela della salute delle persone, incentivando la privatizzazione e producendo un disavanzo finanziario certificato dal MEF, tutte questioni che hanno prodotto la crescita dello scontento popolare e una sconfitta elettorale che il centro-destra non è ancora riuscito ad accettare. Occorre quindi operare per la definizione del nuovo Piano sanitario regionale, che deve basarsi su scelte politiche chiare, sulla valorizzazione delle competenze migliori e sulla partecipazione dal basso della società, in modo da restituire alla salute il valore fondamentale di “bene comune”, configurato anni fa tra gli altri da un grande giurista e un’indimenticabile persona come Stefano Rodotà.






Comentarios


bottom of page